Una condizione di non ritorno

Sono reduce da un team coaching in una grande azienda, dove -tra le altre competenze- abbiamo lavorato molto sul problem solving. 

Per introdurre il tema, ho raccontato in aula di un episodio che mi e’ accaduto tanto tempo fa, quando professionalmente parlando il mio bisogno principale era essere considerata brava, efficiente ed all’altezza delle aspettative di chi stava credendo in me (più di quanto non lo facessi io stessa). La situazione era questa: da giorni stavo provando a risolvere un problema che ovviamente mi stava portando fuori dalla mia zona di comfort e facendo perdere il sonno e l’appetito perché – per quanto mi scervellassi – non riuscivo a districare il bandolo della matassa. Quello che vedevo davanti a me era solo il prodromo di un sonoro fallimento.

Come spesso vedo fare oggi ai miei clienti durante le sessioni di coaching, mi sono rivolta ad una persona che in ambito lavorativo era per me un modello, un esempio di equilibrio e di capacita’ di problem solving , cercando in lui la soluzione al mio problema. La sua risposta, particolarmente irritante per me in un primo momento, fu un invito a “spostarmi dall’altro lato della scrivania”, osservando il problema che tanto mi affliggeva da una prospettiva diversa. 

Una volta digerita la delusione per non aver ottenuto la risposta che cercavo, ho cominciato a  focalizzarmi sul processo di soluzione più che sulla soluzione stessa. In sostanza, grazie al suo suggerimento, ho provato a concentrarmi di più sull’analisi del problema, sulle risorse da mettere in campo, su ostacoli e vantaggi che avrei potuto incontrare.

Non lo sapevo allora, ma il mio processo mentale rifletteva esattamente il percorso di una sessione di coaching, dove spesso il cliente e’ talmente concentrato sul “fare” qualcosa per raggiungere il suo obiettivo, che vorrebbe saltare direttamente al piano di azione, senza soffermarsi su quanto c’e’ prima (la chiara definizione dello stato desiderato, l’identificazione delle alternative, dei possibili ostacoli e dei vantaggi di ogni scelta).

Attraverso la presa di consapevolezza dei propri talenti e delle proprie risorse si raggiunge la sicurezza necessaria per uscire dalla propria zona di comfort e si accetta di confrontarsi con qualcosa che ancora non conosciamo, senza chiedere ad altri la soluzione, ma trovandola noi stessi. E la consapevolezza, in un circolo virtuoso, arriva quando ci concediamo di cogliere una sfida, di confrontarci con un problema per la prima volta. Il rischio, certo,  e’ il fallimento, ma il possibile beneficio e’ un potenziamento di quello che Bandura definiva il senso di autoefficacia. Ed ecco che il sentirsi bravi, efficienti ed all’altezza delle aspettative e’ una risposta interna, non più demandata ad altri.

Seneca diceva che l’albero diventa solido e forte quando e’ battuto dal vento.

In modo molto meno poetico, io sono convinta che la nostra vera potenza sia la nostra consapevolezza. Consapevolezza dei nostri talenti, di quello che ci fa paura e che cerchiamo di evitare per non uscire dalla “zona del noto”. Consapevolezza che se decidiamo di rischiare la nostra zona del noto si amplierà, cosi come le nostre convinzioni potenzianti. Consapevolezza che la consapevolezza stessa sia una condizione di non ritorno.

 

 

 

 

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